Se un film non ti cattura alle prime immagini, ci puoi mettere il cappello che vuoi per nascondere il grigiore, è inutile quello prima o poi viene fuori. Vincere un Oscar è la grande ambizione di attori e registi, specie se si tratta di un premio assegnato nella patria del cinema, fiera delle vanità.
Quando dopo i primi fotogrammi un film non affascina non vale la pena che si sprechi tempo a stargli davanti. La vista e l’udito ne soffrono, come pure il cervello che è una seconda pancia ed ha bisogno di soddisfacente nutrimento. Ho la sensazione che gli americani, padroni di casa a Hollywood ogni tanto si facciano beffa dell’arte altrui assegnando il loro premio a un film vacuo, inutile e stereotipato. Certo avrà contribuito al suo successo il titolo, nato dalla reminiscenza della Dolce vita che è diventata la Vita è bella per finire in Grande Bellezza senza passare dal Paradiso.
Ho abbandonato la visione alla prima pubblicità della Mediaset che, intervenuta dopo circa 30 minuti, non ha spezzato nessuna magia perché non c’era magia. Non credo di perdermi niente a stare a scrivere anziché vedere come va avanti. Di Servillo ho visto film migliori ed emozionanti, sarebbe stato più dignitoso assegnargli il premio alla carriera e non a questo lungometraggio in cui le immagini minimaliste e al tempo stesso colorate fanno a pugni con musiche che cozzano tra di loro su un pentagramma cacofonico. Non c’è un disegno sonoro organico che catturi l’udito, i dialoghi si perdono nel nulla.
Forse come film vuole essere solo una provocazione, era proprio necessaria? Veniamo da vent’anni di accozzaglie sociali che ci hanno sprofondato in un limbo. Di questa grande bellezza ne avrei fatto a meno.